Lilly e il Vagabondo di Natascia Luchetti

A marzo 2021 esce il nuovo romanzo di Natascia Luchetti, Lilly e il vagabondo, autrice che non pubblica dal 2019 con la Delrai Edizioni. Il Covid ha rimandato molte pubblicazioni, fermato altre, e distrutto il mondo editoriale, ma quest’autrice continua a lottare e a usare la fantasia per scrivere sempre nuove storie. E noi facciamo altrettanto.
Da oggi è disponibile il pacchetto dei suoi quattro romanzi dedicati a personaggi ormai leggenda quali Dracula e Van Helsing: Il pacchetto gemma. A sostegno dell’editoria, ma anche di una scrittrice che ha tanto da dire e da dare ai suoi lettori.
Se volete è anche disponibile il suo racconto: Il battesimo della vita, da scaricare gratuitamente in formato e-book su tutti gli store online.
Vi rimandiamo anche su Wattpad, per leggere il suo nuovo romanzo: Il signor Corvo. https://www.wattpad.com/story/251403251
Ma per un assaggio che speriamo possa ingolosirvi, vi proponiamo il prologo di Lilly e il vagabondo:
Dorian mi guarda con gli occhioni di un bimbo che sta per scoppiare a piangere, e stavolta il sorriso che gli rivolgo non fa alcun effetto. Il suo labbro inferiore inizia a tremare e dalla bocca escono i primi lamenti sommessi.
«Guarda qui» lo richiamo a bassa voce mentre estraggo una monetina dalla tasca dei pantaloni. È un quarto di dollaro coniato da poco, quindi lucente e argentato. Basta il riflesso della luce fredda del bus sul metallo a catturare l’attenzione di mio figlio. Conosce questo gioco alla perfezione, ma gli piace rivederlo. Ama volare con la fantasia e io sono un maestro nel fargli dimenticare la stanchezza.
Gli faccio vedere bene la monetina, tenendola tra indice e pollice destri, dopodiché la stringo nel palmo. Con il pollice la spingo a uscire tra l’indice e il medio. Inclino appena la mano, ma fatico un po’ a tenere la moneta in equilibrio, mentre rotola sopra le altre dita, perché il pullman sobbalza. La catturo con il mignolo prima che cada a terra e la infilo all’interno della manica, mentre faccio passare l’altra mano davanti allo sguardo attento del piccolo, distraendolo.
Il maglione che ho ancora addosso è umido d’acqua e non è il massimo per fare questi giochi, infatti la moneta rimane incastrata poco sotto l’elastico della manica.
Va bene lo stesso. L’importante è che Dorian non la veda più all’interno della mano con cui la stringevo prima. Poi la avvicino al suo viso e muovo le dita, in modo che i suoi occhi si concentrino su queste, mentre con l’altra mano tiro fuori la moneta dalla manica e la stringo, nascondendola. La lascio sul sedile vicino a lui e finalmente abbasso anche l’altro braccio. Mi stringo nelle spalle e lo vedo intento a guardarsi attorno. Allunga le braccia verso di me, chiedendomi di avvicinare le mani e io lo faccio. Gliele mostro con i palmi rivolti verso l’alto e lascio che le sue piccole dita le accarezzino e le girino.
«Non c’è più» mi dice, sorpreso.
«È sparita?» domando io e lui annuisce lentamente.
Premo l’indice destro sulla punta del suo naso e lui si concentra qualche istante a guardarlo, così posso infilarla in fretta nella tasca del suo gilet senza farmi scoprire.
«Io dico di no, invece. Controlla nella tasca.»
Dorian mi ascolta e infila le manine all’interno. Sgrana gli occhioni azzurri e schiude le labbra quando trova il quarto di dollaro. Lo stringe tra le dita e lo tira fuori dalla tasca. Lo porta all’attenzione del suo sguardo e aspetta un po’ di secondi prima di alzare gli occhi sui miei.
«Ma era sparita!»
«Magia» gli rispondo, mascherando così il semplice trucco con cui ho ingannato il suo sguardo. Mi piace che lui ci creda e voglio che continui a farlo il più possibile. La magia, anche se non esiste, aiuta a mitigare la durezza del mondo, perché dà speranza anche quando le opportunità concrete sono fuori discussione.
Dorian rimane qualche altro secondo a fissare la monetina e non è molto convinto di volermela lasciare quando me la consegna. Tende subito le braccine verso di me e io lo prendo, facendomelo sedere sulle gambe. Gli bacio i capelli biondi quando appoggia la testolina sul mio petto e gli sistemo qualche ciuffo che gli è scivolato davanti agli occhi. Siamo stanchi tutti e due, ma lui più di me. Il viaggio da Boston al Tennessee è stato lunghissimo e non sempre facile. Siamo stati perseguitati dal maltempo e a ogni sosta ci siamo fatti un bel bagno. È autunno, ma a nord fa già freddo, qui invece l’aria è più dolce, anche se la pioggia l’ha resa umida.
Sono passate quasi sedici ore da quando siamo partiti e ho un bisogno disperato di mettere i piedi per terra, anche se il diluvio non mi renderà vita facile. Il giubbino che ho fatto indossare a Dorian, e che ora giace sul sedile davanti, è impermeabile, ma non è bastato a coprirlo. I vestiti si sono inumiditi. Ho paura che possa ammalarsi e non saprei proprio cosa fare a quel punto. Non ho un piano di riserva, a dire il vero, ma spero di trovare un lavoro da queste parti, almeno per un po’ di tempo, anche se confido poco nelle cittadine piccole, che sono la nostra destinazione. Non sono mai molto accoglienti con chi viene da fuori, ma è pur vero che non riuscivo più a stare in una città affollata e densa di smog. Gli alloggi costano troppo e, per quanto i mezzi di trasporto funzionino divinamente, cominciavo a sentire l’insofferenza dell’abitudine.
Ho così tante cose su cui riflettere che sento la testa sul punto di esplodere e porto istintivamente una mano davanti al viso per scacciare via i brutti pensieri. Mi gratto la fronte con i polpastrelli, che lascio poi scivolare sul naso. Chiudo gli occhi e provo a frenare l’ondata di preoccupazioni, concentrandomi sul brusio di chi mi sta intorno. Ascolto qualche conversazione, sento i giovani seduti dietro di me parlare di genitori e parenti come se fossero una palla al piede con il tono di chi non crede davvero in quello che dice. Sono due fratelli e sono tornati in Tennessee per quindici giorni, prima di rientrare al college. Sono entusiasti di sentire di nuovo l’aria di casa, anche se cercano di nasconderlo, ma non sono bravi nel farlo.
È difficile non ammettere le emozioni, perché se non le lasciamo uscire dalle labbra, trapelano dagli occhi, dalle espressioni del viso, dai gesti.
Io provo sempre a mostrarmi positivo e sorridente con Dorian e con quelli che vengono a contatto con me, ma forse sono un tipo troppo trasparente, si capisce subito quando sto mentendo. Penso che anche mio figlio lo senta.
Mi strofina una guancia contro il petto e si accoccola a me, come se avvertisse la mia stanchezza e il senso di solitudine che percepisco.
È come se io e lui fossimo completamente soli, anche in mezzo a più di una ventina di persone. Mi sento anche abbattuto, perché mio figlio non ha altro che un piccolo zaino con le sue poche cose, infilato nel borsone dove ci sono anche le mie, e perché io non so fare altro che camminare e camminare per una nazione enorme senza riuscire a trovare un posto dove fermarmi e costruire qualcosa. Non ho un’anima stabile.
Ah… Non c’è verso di scappare ai pensieri, non importa quante conversazioni ascolti; tutte, anche se solo per un piccolo dettaglio, tirano fuori qualcosa di me.
È la frenata dolce del mezzo pesante a riportarmi alla realtà. La segnaletica della stazione dei bus recita Townsend a caratteri cubitali in stampatello.
«Siamo arrivati» avverto Dorian, ma lui non si allontana, anzi stringe le manine sul mio maglione. Vuole che lo prenda in braccio, ma io devo infilarmi l’impermeabile e fare lo stesso con lui. So che vorrebbe solo dormire adesso, ma purtroppo dobbiamo scendere, percorrere a passo lento il corridoio fino al portellone d’uscita appena aperto.
Quando lo raggiungo, mi accorgo che la nebbia creata dalla pioggia battente mi permette di vedere a stento la sagoma frastagliata delle Smoky Mountains. È passato diverso tempo dall’ultima volta che le ho avute davanti, ma non sentivo la nostalgia che provo in questo momento nel guardarle.
È stato sempre così per me: nessun posto è importante mentre sono in viaggio. Una destinazione vale l’altra, ma quando arrivo e riconosco le particolarità, i dettagli unici, sento il peso del tempo che ho passato lontano da quel luogo e non faccio che chiedermi come siano cambiate le vite che ho lasciato. Inizio a ricordare i nomi e i visi di chi ho incontrato in quella cornice e faccio ipotesi sulle loro esistenze attuali. Mi chiedo se sarebbero disposti a incontrarmi di nuovo, ma a Townsend non c’è nessuno a cui ero legato. È l’unico paese in questa zona del Tennessee in cui non mi sono mai fermato, ha pochi abitanti, per questo credo proprio che rimarrò qui per un po’. È un foglio bianco.
Una sferzata di vento ci butta addosso la pioggia fredda e io mi chino su mio figlio cercando di fargli scudo col mio corpo. Avevo preso un ombrello alla stazione di servizio, quando eravamo in Virginia, ma una volta scesi alla fermata successiva, il vento lo ha accartocciato e reso inutilizzabile e ho dovuto buttarlo. Maledetti ombrelli da cinque dollari!